LA SPIRITUALITÀ DEL MINISTERO DELL’ACCOLITO

 

di Massimo Craboledda

Nel bollettino del mese scorso si è visto che compito istituzionale dell’accolito è curare il servizio all’altare, aiutare il diacono e il sacerdote nelle azioni liturgiche, distribuire, come ministro straordinario, ove ne ricorrano necessità od opportunità, la S. Comunione, portandola anche ai fedeli infermi. Tutto ciò a testimonianza visibile e stabile dell’amore con cui la Chiesa custodisce ed elargisce il grande dono dell’Eucaristia.

La vicinanza alla mensa eucaristica, la prossimità, si può ben dire, al roveto ardente (Es 3) implicano una tensione costante a viverne e a riverberarne i contenuti ed i significati espressi dalla liturgia.

         L’Eucaristia è memoriale della Passione e della Risurrezione del Signore. Nel pane e nel vino consacrati Gesù è realmente presente con la totalità della Sua persona divina e umana, come vittima che si offre al Padre, servo obbediente per la nostra salvezza. Il vivere l’Eucaristia comporta, perciò, la spiritualità dell’offerta di sé, del servizio. Servizio alla Chiesa, alla comunità: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rom 12,1). Gesù stesso, pur essendo l’unico, vero Signore, e perciò degno di essere in ogni modo servito, ce ne ha dato l’esempio: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mc 10,45); “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,14-15).

         Saldo in questa fede, l’accolito (ma vale per chiunque voglia vivere seriamente l’Eucaristia) è chiamato a trasferire nella propria vita l’umile servizio all’altare come sapienza di vita. Dalla liturgia alla missione, dalla domenica alla ferialità, dalla mensa eucaristica alla tavola del povero: non deve esservi frattura né distanza. C’è molta povertà nel nostro mondo: più che di denaro, pesa la mancanza di rapporti, di affetto; c’è tanta solitudine. Dall’Eucaristia occorre trarre occhi, orecchie, mani, tempo, pazienza, amicizia per un servizio semplice, per una carità fatta anche di gesti piccoli, di rapporti diretti, affettuosi. Occorre che tante povertà, per lo più nascoste, vengano fatte emergere ed accompagnate dalla premura della comunità.

         Nel Suo insegnamento sul servizio, Gesù parla di servi (Lc 17, 7-10) che, a sera, al ritorno dal lavoro nei campi, non hanno ultimato il loro compito: prima del riposo c’è ancora da fare per servire il proprio Signore. In una delle lezioni più coinvolgenti del corso di formazione per i ministri istituiti, don Giovanni Nicolini esortava a vivere quella pagina del Vangelo scoprendo che c’è ancora posto alla tavola della nostra vita, c’è ancora un tempo che si può offrire per una gratuità in più verso chi nella povertà, nel dolore, nella solitudine è immagine viva del Cristo. Senza dimenticare che, dopo tutto, siamo “servi inutili”: l’aggettivo non ha una connotazione negativa, ma vuol dire servi dei quali non c’è bisogno, dei quali si può fare a meno. E davvero il Signore può fare a meno di noi; forse, anzi, il più delle volte siamo proprio noi a porre ostacoli alla potenza del Suo intervento. Tuttavia, per una meraviglia del Suo amore, vuole servirsi di noi, vuole avere bisogno di noi: il ministero non è una mia gratuità, ma un Suo dono. Ed allora sgorga il bisogno di Eucaristia, un profondo rendimento di grazie al Padre in unione con Cristo, un’offerta che coinvolge ed impegna tutti, poiché tutti abbiamo ricevuto “grazia su grazia”.

         Dono di sé e celebrazione delle grandi opere di Dio: chi serve all’altare ha il compito di testimoniare, col proprio ministero, tali atteggiamenti e di adoperarsi perché tutti si lascino più facilmente coinvolgere dalla liturgia e dall’offerta di Cristo. L’accolito, perciò, collabora con chi presiede la celebrazione affinché tutto sia predisposto in modo che la liturgia stessa esprima nei segni, nei gesti, nelle parole la sua sovrabbondante ricchezza, per una maggiore conoscenza e amore all’Eucaristia ed una più degna lode al Signore.

         Vi è ancora una dimensione particolarmente impegnativa per l’accolito: la dimensione della comunione. Mediante il sacramento del pane e del vino consacrati, Cristo ci rende partecipi del Suo Corpo e del Suo Sangue, stabilendo e rafforzando nella Sua Chiesa un’unità che trova l’unico modello in quella delle Persone divine. La partecipazione alla liturgia deve esprimere questa verità. Diceva il Card. Lercaro che se i cristiani capissero la Messa e la vivessero si realizzerebbe fra loro la serena convivenza di una famiglia. A chi più avverte una responsabilità di servizio è chiesto di essere promotore di unità, di adoperarsi per il superamento di ogni individualismo e divisione.

         Ed infine non possiamo tralasciare la condivisione della gioia. Il dono del ministero, accolto con gioia, si può sintetizzare come servizio alla gioia dei fratelli. L’accolito non si sente impegnato tanto per un’esattezza “tecnica” della liturgia (che, pure, deve esservi), quanto perché dalla liturgia stessa scaturisca gioia, secondo le parole del governatore Neemia nell’antica assemblea del popolo di Gerusalemme reduce dall’esilio di Babilonia: “La gioia del Signore è la vostra forza” (Ne 8, 10).