Palestina: terra senza terra

di Francesca Citossi

 

La questione palestinese è tanto intricata e radicata che risulta difficile ricordare anche come è cominciata. Al momento di andare in stampa forse la guerra civile sarà scoppiata, oppure una semplice definizione semantica non altera la realtà di violenza che è istituzionalizzata dal 1948.

Gli Ebrei, scacciati da secoli, sono tornati sul suolo materno e l’hanno trovato occupato. I Palestinesi, installatisi da lungo tempo, hanno subito la costruzione di Israele da un giorno all’altro. Innumerevoli guerre sono seguite (1956, 1967, 1973) con gli stati arabi dell’area (Giordania, Tunisia, Siria, Egitto, Libano) che a turno hanno ospitato e poi espulso l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) di Yasser Arafat. Lo stesso fronte palestinese in questi decenni si è frantumato e squarciato in gruppuscoli più o meno radicali che facevano ricorso a tecniche terroristiche attaccando Israele, gli stati occidentali che lo supportavano e attaccandosi fra di loro. La storia più recente riporta l’Intifadah (guerra delle pietre nel 1987 che ha visto la nascita di Hamas e nel 2000) come ultima, estrema, disperata reazione.

La posizione di Israele è stata molto semplice: negare l’esistenza stessa dei Palestinesi. Fino ad Ytzak Rabin e al processo di pace di Oslo del 1993, bruscamente interrotto dall’uccisione (da parte di un ebreo estremista) dell’ex generale nel 1995. Da allora la solita linea ha ripreso quota: i Palestinesi sono terroristi, non trattiamo, questa terra è nostra.

Dall’altra parte l’OLP ha continuato ad accusare Israele di terrorismo di stato (il terrorismo, in effetti, è una metodologia che può essere usata da chiunque e non necessariamente ascrivibile ad attori non-statali che non raccolgano il favore dell’Occidente). Se nel periodo di Oslo le posizioni dell’OLP si erano ammorbidite fino ad ipotizzare che la “distruzione dello stato di Israele” potesse essere cancellata come priorità, la rottura del 1995 ha segnato una regressione profonda. Il disaccordo si è fatto più duro a fronte della piattaforma elettorale di Ariel Sharon nel 2001 che prevedeva un ritorno a posizioni israeliane molto radicali. Sharon stesso, nel corso degli anni, si è poi reso conto che i Palestinesi non si possono ignorare e non si possono cancellare due generazioni. Le risoluzioni delle Nazioni Unite (n.242/1967 e n.338/1973), infatti, da decenni richiamano Israele ad un rientro nei confini pre-1967 per un negoziato basato su terra in cambio di pace e la restituzione dei Territori Occupati. Lo stallo si è cristallizzato su un’Autorità Nazionale Palestinese di bantustan* nella Striscia di Gaza e parte della Cisgiordania (il 47%).

Paradossalmente Sharon, eletto col sostegno dei coloni israeliani nei Territori Occupati che sono i più oltranzisti, ha mandato l’esercito per evacuare gli stessi coloni e restituire quei territori nel 2004. Le immagini dei soldati israeliani che entravano nelle case dei coloni nella Striscia di Gaza e strappavano i loro concittadini dai loro mobili erano tanto stupefacenti quanto probanti del fatto che la politica, spesso, gioca con la vita delle persone normali. L’ictus che ha colpito Sharon non ci ha permesso di vedere come la sua politica si sarebbe evoluta, ma certamente era divenuto, come Rabin prima di lui, molto pragmatico: se i Palestinesi non hanno una terra e niente da perdere continueranno a farsi saltare in aria con chi sta loro intorno. Se non tutta, almeno un pezzo di terra bisogna ridargliela.

Fino alla morte di Arafat nel 2005 la sostanzialmente univoca amministrazione politica palestinese non è mai stata minacciata. La leadership di Al Fatah, il partito di Arafat, si è identificata con l’OLP. Arafat e tutta la dirigenza sono stati protagonisti di malgoverno, cumulazione di cariche, appropriazioni indebite e clientelismo e da tali accuse non si sono nemmeno difesi talmente erano fondate e indiscusse.

Dall’altra parte Hamas (zelo), che fin dal 1989 aveva scelto la lotta armata, si era anche distinto per una radicata presenza nel territorio in mezzo alla popolazione civile con un’ampia rete di assistenza sociale a bambini, vedove, malati con scuole, sussidi e ospedali mentre Fatah, scomparendo nell’ombra dell’affarismo e della corruzione, si era sempre di più allontanato dalle esigenze della vita disperata degli sfollati palestinesi.

Dopo decenni di dominio incondizionato della fazione di Arafat, Hamas ha vinto le elezioni nel gennaio 2006,  ma Fatah non vuole farsi da parte. L’Unione Europea, con una mossa che è sembrata poco saggia, ha bloccato in primavera i finanziamenti all’Autorità Palestinese. Un paese che tale non è (legalmente i territori sono occupati da Israele) ha enormi problemi di gestione delle tensioni interne. Smettere di pagare gli stipendi delle forze dell’ordine non può contribuire alla pacificazione di un paese che è a serio rischio di radicalizzazione religiosa. Avevamo chiesto elezioni democratiche e ci sono state: ora non possiamo rimangiarci la parola perché non ci piace chi ha vinto, democraticamente, il 65% dei consensi.

In questi giorni gli scontri sono frequenti e gravi e l’assurdo è in televisione. I Palestinesi, da decenni in lotta con Israele, che sono fuggiti da un paese arabo all’altro e per attirare l’attenzione internazionale hanno usato il terrorismo in tutto il mondo, sembrano non paghi abbastanza di questa mattanza e si spaccano al loro interno per spartirsi uno stato che non esiste, un popolo distrutto e sfollato, un territorio che appartiene ad altri e strutture amministrative allo stremo. Ricattare il governo legittimamente in carica con aiuti umanitari per obbligarlo a firmare una pace sterile non funzionerà. Aiutare i bisognosi è un dovere che prescinde dal quadro politico e le paci forzate finiscono come la Repubblica di Weimar del 1919. Il presidente palestinese Abu Mazen ha annunciato elezioni anticipate ma c’è disaccordo. Chiunque vinca, se il processo sarà democratico e se va bene per i Palestinesi, dovrà andar bene per il resto del mondo come interlocutore per i negoziati, senza ricatti: sessant’anni di shoah palestinese sono troppi per fare ancora gli schizzinosi.

*Il termine bantustan nasce nel 1940 in Sudafrica per designare le zone assegnate alle etnie nere dal governo sudafricano nell'epoca dell'apartheid. Deriva da bantu, che significa "gente", "popolo" nelle lingue bantu e -stan, che significa "terra" in persiano

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“L’ora della verità”, Internazionale n. 627, 3 febbraio 2006, p.22-28

“Fare i conti con Hamas”, L’Espresso 4 maggio 2006, p.13