SCIENZA E FEDE

di Massimo Craboledda

Febbraio 1997. Da Edimburgo, in Scozia, si diffonde una notizia sensazionale: è stato clonato il primo mammifero. Si tratta della famosa pecora Dolly, recentemente scomparsa a causa delle complicanze di un precocissimo invecchiamento. Da allora, periodicamente, il dibattito sulla liceità e le conseguenze della clonazione biologica si riaccende coinvolgendo, in particolare, la sperimentazione su embrioni umani.

La clonazione è una tecnica mediante la quale si ottiene un individuo geneticamente identico al progenitore. Nel caso di Dolly fu rimosso il nucleo da un embrione di pecora allo stadio monocellulare e sostituito con il nucleo di una cellula della pecora donatrice; seguì una normale gestazione nell’utero di un’altra pecora. Procedure simili potrebbero, in teoria, essere usate per clonare le persone, dal momento che il nucleo di ciascuna cellula somatica contiene una copia completa del genoma umano.

La prima ipotesi in questo senso, ingenuamente provocata dall’entusiasmo per il riuscito esperimento dei ricercatori scozzesi, fu quella della replicazione biologica di un individuo con determinate caratteristiche fisiche o psichiche (bellezza, prestanza, genialità) o per scopi eugenetici (generazione di individui non affetti da malattie ereditarie). Questa prospettiva va rapidamente esaurendosi, in quanto non solo eticamente inaccettabile, ma anche praticamente irrealizzabile. A nuclei geneticamente identici non corrisponde, infatti, necessariamente, uno stesso fenotipo somatico ed ancor meno la stessa personalità: l’ambiente in cui il soggetto è immerso, mai identico per individui diversi, gioca un ruolo non indifferente nello sviluppo dei suoi caratteri fisici e psichici, così come l’educazione e l’esperienza sono determinanti nella formazione della personalità. Quanto al piano etico, è evidente che la clonazione così intesa rappresenterebbe la distruzione della dignità della persona, il cui organismo verrebbe generato attraverso un processo puramente tecnologico, completamente svincolato da ogni valore di affettività e sessualità, che inaugurerebbe una nuova forma di potere dell’uomo sull’uomo.

Più realistica appare la prospettiva recentemente abbracciata dai sostenitori della clonazione umana, secondo i quali essa dovrebbe essere volta alla produzione di tessuti di ricambio compatibili con quelli del donatore del nucleo cellulare e, quindi, innestabili nel suo corpo senza problemi di rigetto.

Questo orientamento, definito terapeutico, si fonda sulle proprietà delle cellule staminali dell’embrione umano. Esse hanno due principali caratteristiche: la capacità di riprodursi a lungo senza differenziarsi e quella di dare origine a cellule progenitrici dalle quali discendono popolazioni di cellule altamente differenziate (nervose, muscolari, ematiche, etc.).

La clonazione terapeutica prevede il trasferimento del nucleo di una cellula di un dato individuo in un ovocita umano a sua volta privato del nucleo, seguito da sviluppo embrionale fino allo stadio di blastocisti e dalla utilizzazione delle cellule della massa interna di quest’ultima per ottenere le cellule staminali e, da queste, infine, le cellule differenziate desiderate. Al termine di questo processo sarebbe possibile disporre di una certa quantità, ad esempio, di tessuto nervoso o cardiaco del soggetto donatore.

Queste poche note non possono illustrare compiutamente una tecnica molto complessa, tuttavia due fatti debbono essere tenuti ben presenti: primo, la clonazione terapeutica richiede la produzione di embrioni umani (generalmente vengono usati quelli prodotti in soprannumero nelle tecniche di fecondazione artificiale in provetta); secondo, il prelevamento delle cellule interne dall’embrione allo stadio di blastocisti comporta la distruzione dell’embrione stesso. La giustificazione etica starebbe nel fatto che a venire sacrificato non sarebbe un essere umano ma una semplice struttura biologica considerata come pre-embrionale, appunto la blastocisti, dalla quale saranno prelevate le cellule necessarie per la coltura dei tessuti destinati all’impianto.

In verità, abbiamo già sottolineato il mese scorso che, proprio in base ad un’analisi scientifica rigorosa, l’embrione è, a partire dalla fusione dei gameti nel concepimento, un soggetto umano con una ben definita identità, il quale comincia, da allora, il proprio continuo e graduale sviluppo: in nessuno stadio può essere considerato come un semplice ammasso di cellule. Non esiste uno stadio di pre-embrione. Qualunque intervento sull’embrione che non sia a suo favore si costituisce come atto lesivo del suo diritto alla vita e, pertanto, è immorale ed illecito.

Nessun fine buono, quale l’utilizzazione delle cellule staminali in vista di procedimenti terapeutici di grande aspettativa, può giustificare l’uccisione di embrioni. ? come se, per avere a disposizione denaro per aiutare i poveri, si autorizzassero rapine a banche e portavalori: un fine buono non rende buona un’azione illecita in se stessa.

Non si deve interpretare il giudizio morale negativo circa la clonazione umana come rifiuto della scienza, alla quale, anzi, siamo grati per la conoscenza che offre dei meccanismi della vita e per gli orizzonti che dischiude. Ma tali orizzonti devono essere perseguiti nell’ambito del lecito: noi respingiamo l’uso sconsiderato di una scienza non illuminata da valori più alti e fondanti.

Non dimentichiamo che nel Paradiso terrestre, oltre all’albero della scienza del bene e del male al quale sciaguratamente allungarono la mano i nostri progenitori, c’era un altro albero speciale: l’albero della vita. Essa appartiene a Dio e chi pensa di suscitarla e trasmetterla secondo vie diverse da quelle da Lui stabilite o di distruggerla a proprio arbitrio si pone in atteggiamento di sfida verso Dio stesso: come si può pensare che non ne discenderà un male?