SCIENZA E FEDE

di Massimo Craboledda

Concludiamo la serie di riflessioni sulla vita, la sua origine e il suo sviluppo, con uno sguardo sull’uomo.

Due milioni, forse due milioni e mezzo di anni fa: homo abilis. Era già uomo? Poi homo erectus, fino a centomila anni fa, quindi homo sapiens, ed infine noi, i moderni, homo sapiens sapiens, a partire da quasi quarantamila anni fa: le nostre origini affondano negli abissi del tempo, in una lontananza inimmaginabile. Ma perché comparve l’uomo, quando il sole illuminava la terra già da quattro miliardi e mezzo di anni, e di che cosa è fatto questo essere straordinario?

Conosciamo il racconto biblico: "Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò" (Gen 1,27) e ancora: "Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici con alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente" (Gen 2,7). In questi versetti vi è tutto quanto l’Autore sacro sa che per noi è importante conoscere circa le nostre origini: l’uomo deriva da un atto creativo diretto di Dio e rappresenta il vertice della creazione; la distinzione dei sessi è voluta da Dio stesso; l’uomo e la donna hanno pari dignità, una dignità che deriva loro dall’essere immagine di Dio.

Possiamo tranquillamente riposare nella serena certezza di questa fede, senza temere di ascoltare quanto la scienza è venuta scoprendo.

Un primo dato certo che essa fornisce è che il nostro corpo è fatto della stessa "stoffa" di tutto l’universo. Gli elementi chimici che lo costituiscono sono gli stessi che troviamo negli altri viventi e nel regno minerale, senza eccezioni. Lo stesso dicasi per aggregati più complessi: tutte le proteine delle nostre cellule, ad esempio, sono catene degli stessi venti amminoacidi che possono trovarsi in qualunque cellula esistente sulla terra.

Un secondo riscontro evidente è la somiglianza morfologica dell’uomo con le scimmie dell’ordine dei primati. A parte l’uguaglianza di numerose caratteristiche (cinque dita per ogni mano, lo stesso numero di vertebre, etc.), le indagini sul DNA paiono rilevare che le differenze a livello genetico fra scimpanzé e uomo sono dell’ordine del 2% appena. Nondimeno, sul piano funzionale, ad una percentuale così bassa corrispondono differenze molto importanti, soprattutto per quanto riguarda la deambulazione e lo sviluppo cerebrale.

Queste osservazioni della scienza non contraddicono in nulla la rivelazione biblica. La stessa plausibilità che la struttura morfologica dell’uomo sia un’evoluzione di quella delle scimmie antropomorfe non desta particolare problema: non è che una specificazione di quella "polvere del suolo" di cui parla il libro della Genesi. Certamente a Dio non sarebbe mancata la "fantasia" per creare un essere del tutto diverso anche nella corporeità, e tuttavia Egli sembra avere preferito i tempi lunghissimi di un’evoluzione, da Lui, peraltro, disegnata e ordinata. Solo Lui potrebbe dirci il perché di questa scelta.

Ma l’uomo non è solo corpo: egli presenta una differenza radicale rispetto all’animale, una differenza che si può riassumere nell’autocoscienza e nell’intelligenza astrattiva. Esse si manifestano inequivocabilmente nell’attitudine a generare cultura, stili di vita, a loro volta testimoniati dalla capacità di formulare progetti e di ricorrere all’uso di simboli. Tutto ciò si può registrare scientificamente, ma donde proviene? Siamo di fronte a facoltà che hanno un’origine biologica, sono, cioè, un’evoluzione dello psichismo animale dovuta al diverso sviluppo cerebrale, o sono prerogative extrabiologiche, di natura spirituale? Negare questa possibilità, come fa il materialismo, tenace sostenitore della prima ipotesi, è semplice pregiudizio ideologico.

Sono evidenti le implicazioni filosofiche del dilemma posto; anche la scienza, tuttavia, pur non potendo dissertare di quanto è spirito, possiede oggi i mezzi per registrare ed analizzare esperienze di natura chiaramente extrasensoriale che appaiono svincolate dal funzionamento del cervello. Ci sono molti studi di medici e scienziati che attestano come la coscienza non abbia bisogno di un supporto molecolare, sia una realtà che va oltre l’organo cerebrale: appare semplicistico e pregiudiziale liquidare queste esperienze sostenendo che conosciamo ancora troppo poco del cervello per poter emettere giudizi definitivi. Ma si possono portare anche solidi argomenti filosofici a sostegno della matrice spirituale della coscienza e dell’intelligenza dell’uomo.

Molto brevemente e senza entrare in un dibattito che ha riempito la storia della filosofia, si asserisce che la natura spirituale del pensiero può essere dedotta logicamente dalle idee che esso è in grado di formulare. Noi sappiamo esprimere idee di realtà spirituali (ad esempio un angelo, la giustizia, la bontà) ed idee di cose materiali che il pensiero sa smaterializzare: ad esempio, l’uomo, nella nostra idea universale, non è né alto né basso, né biondo né bruno, né bianco né nero. Sulla scia di S. Agostino, di S. Tommaso e dei filosofi scolastici affermiamo che l’operare è conseguenza dell’essere ("operari sequitur esse"): se il pensiero si muove in un ambito immateriale, ovvero spirituale, non può essere di natura materiale, non è un parto dell’evoluzione biologica.

Noi, dunque, crediamo che ad un certo punto della storia, impossibile da localizzare con precisione, è avvenuto un fatto unico, straordinario, una discontinuità di natura ontologica fra l’animale ed un nuovo essere vivente, divenuto intelligente ed autocosciente. Qui, dove la scienza evidenzia i suoi quesiti e la filosofia propone le sue speculazioni, la Parola di Dio ci apre orizzonti che mai, da soli, avremmo potuto conoscere. L’anima di ciascun uomo è da Lui direttamente creata ed ognuno, pertanto, è il centro di un progetto che va oltre ogni umana speranza. È una vocazione nel senso più pieno del termine, una vocazione alla vita che non si esaurirà nel ciclo breve della polvere del suolo.