Islam: integrazione o interruzione?
di Francesca Citossi
Ormai è fatta: gli immigrati sono qui con occupazioni in nero o
alla luce del sole, sono condòmini, colleghi di
lavoro, fanno la spesa, i figli vanno a scuola coi
nostri. Sono nella società, sono la società.
I casseurs francesi ci hanno
ricordato che esserci non significa far parte di. Culture diverse possono
affiancarsi, compenetrarsi, convivere o sopravvivere le une alle altre? Quello
che è diverso ma lontano o temporaneo, come in vacanza, è esotico, attraente e
un po’ radical chic. Quando è qui, ora, e per restare, fa paura. Il multiculturalismo funziona? È un concetto che ha utilizzato
prima di tutto l’Unione Europea e che ora aspira
ad essere la medicina delle società nazionali di ogni paese che soffra di una
variegata gamma di malattie dall’intolleranza ordinaria alla pulizia
etnica.
Probabilmente quel che è successo nei decenni scorsi
è una confusione tra libertà culturale-fondamentale
per la dignità di ognuno-e l’esaltazione e la difesa di ogni forma di
eredità culturale che non tiene conto delle scelte che ogni persona farebbe se
avesse l’opportunità di conoscere altre opzioni. La libertà culturale
implica di contrastare l’adesione automatica alle tradizioni
quando le persone decidono di cambiare il proprio modo di vivere. Più
spesso si verifica invece un apartheid tra culture e
le sopravvivenze affiancate sono presentate come multiculturalismo.
Come a dire che l’osmosi è un’infezione:
influssi di lingue, religioni, usanze non sono mediati ma si arroccano nel
conservatorismo esclusivo ed escludente. Dare diritti economici, sociali e
politici può favorire il dialogo tra culture, la mediazione tra le diversità e
quindi portare al multiculturalismo? Per alcuni si
tratterebbe di uno “sconto”, un’ipoteca che potrebbe rivelare
tradimenti quali gli immigrati di seconda generazione che si ribellano alla
loro cittadinanza attuale riaffermando in maniera violenta fedeltà alle loro
origini. Essere nati in una comunità non è una scelta. Al contrario la
decisione di rimanervi all’interno, allontanarsi poco o molto dagli
schemi di comportamento tradizionale o uscirne diventa una scelta
quando vengono valutate altre opzioni.
Negli ultimi 5 anni l’attenzione si è focalizzata compulsivamente sull’aspetto religioso, e in
particolare sulla religione islamica, ricamando ampiamente
sull’ignoranza, madre di pregiudizi ed equivoci. Islam (sottomissione)è
diventato sinonimo di fondamentalismo, integralismo,
oscurantismo, arretratezza, violenza. Come dire che il
mondo cristiano (che comprende protestanti e ortodossi) brucia le streghe,
relega le donne a casa, fa le crociate o che l’Ebraismo è sionismo. Oltre
ad essere visioni tanto sempliciotte da risultare ridicole-quando non provocano nella realtà problemi
drammatici e umanamente inaccettabili- non tengono conto di altre affiliazioni
e fattori: la politica, l’economia, l’ambiente sociale,
l’istruzione, l’informazione e tutte le versioni più distorte e strumentalizzate di questi elementi. Le scuole
separate dell’Irlanda del Nord che hanno allontanato cattolici e
protestanti hanno instillato fin dall’infanzia l’idea di
classificazione non solo venendo meno all’obiettivo primario (permettere
ad ogni bambino di crescere coi principi della propria
religione) ma hanno stravolto questa società “inventando” principi
di ostilità che con la religione non hanno nulla a che fare: non c’è una
religione al mondo che predichi l’odio, la separazione, la persecuzione,
e se lo fa è il risultato della strumentalizzazione e distorsione della
politica interessata o dell’ignoranza più sciatta.
È lampante da risultare banale che la
vicenda estiva della famiglia di Heena, trasferitasi
a Brescia dal Pakistan da vari anni, non è
la risultante della fede religiosa, ma di ben altri fattori. Senza farne
un’autopsia sociologica basti ricordare che il padre e la madre di Heena, nonostante fossero nel nostro paese da 10 anni, non
parlano una parola di italiano, l’80% delle
donne musulmane immigrate in Italia sono analfabete e nel Corano (recitazione
o proclamazione) non c’è scritto né di picchiare i propri
figli, né di obbligare le donne a portare il burqa,
né di fare la guerra o imporre matrimoni. Jihad
significa letteralmente “sforzo” etico e spirituale, condivisibile
con altre religioni, (le 3 monoteiste hanno in comune
La soluzione di mezzo, ovviamente, è di manzoniana saggezza. Mentre
col buonsenso si richiede che gli ospiti cerchino di adeguarsi alla cultura
ospitante rispettandone le leggi, disponendosi ad apprendere la lingua per
comunicare e interagendo senza preclusioni, la cultura ospitante, se decide di
ammettere gli immigrati, deve fornire gli tutti gli
strumenti per far fronte allo sradicamento che provoca disorientamento, quindi
casa, lavoro, scuola, assistenza sanitaria, partecipazione sociale, dignità e
tutela dei diritti. Se migliaia di Heena
vogliono andare in giro con jeans e maglietta corta e avere un ragazzo italiano
è necessario che i due fronti comincino i negoziati, non che disquisiscano come
avvoltoi sulle scelte di una ragazza che nel fiore degli anni non c’è più.
Le questioni ardue sono molte: matrimoni misti, mutilazioni, poligamia
vera o presunta, diritti degli immigrati, matrimoni combinati, diritti
delle donne. Far finta che non ci riguardino o ascriverle a
“loro” nemmeno. Visto che nessuno può scagliare la prima pietra possiamo cominciare ad intenderci almeno sui termini:
Dio si chiama così per Ebrei, Cristiani e Musulmani e l’utilizzo del suo
nome per atti violenti o mancanza di rispetto ne esclude alla radice ogni
rozza, e falsa, spiegazione religiosa. Da tutte le parti.
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“Integrazione”, Amartya Sen,
Corriere della Sera 23 agosto 2006, p.35
“L’ho uccisa, non doveva vivere con quell’italiano”,
Corriere della Sera 15 agosto 2006, p.19
G. Paolucci e C. Eid,
“Cento domande sull’Islam”, Marietti
Genova 2004