LA VOCE DEL VESCOVO

 

di Maria Carla Papi

"Riflessioni sul Giorno del Signore"

Nota pastorale di S. E. il Card. Arcivescovo Giacomo Biffi

A conclusione della riflessione sul secondo "mito" il Card. Biffi scrive: "Se noi crediamo che la natura vera dell’uomo sia quella teologicamente attingibile – e cioè sia di essere immagine viva di Cristo nel suo molteplice aspetto di ricercatore, di adoratore, di figlio e di erede del Padre – dovremo ritenere appartenente intrinsecamente a noi tutto ciò che ci pone in rapporto diretto coll’Unum necessarium e dovremo ritenere alienante tutto ciò che ci porta a perderci nella molteplicità delle cose."

Queste considerazioni si allacciano perfettamente alla riflessione che il Vescovo fa sul terzo "mito" - "Lo stato di diaspora" – che leggeremo fra poco.

Il Vescovo punta immediatamente il dito su quella parola ‘compiacimento’ che è poi lo stato d’animo di chi usa a sproposito una parola lecita per dare ragione alle proprie opinioni. La Chiesa, è sì ‘dispersa’ per il mondo, rappresentata da cristiani che parlano lingue diverse e vivono anche con tradizioni diverse, ma non è dispersa nel senso di disgregata (anche se, come spiega Biffi, la disgregazione è una insidia sempre in agguato a causa del peccato, ma siamo sul piano soggettivo).

La Chiesa, per sua stessa natura, avendo come capo Gesù Cristo è un solo unico corpo.

La Chiesa custodisce il mistero sacramentale, i riti – fra i quali "il rito eucaristico è ...nell’ordine dei riti – il fastigio del nostro inserirci nel Cristo risorto e presente." da Alla destra del Padre-.

Altri riti, come il Battesimo "Connettendo gli uomini col Mediatore e quindi col Padre, costituiscono i legami onde la ekklesia, l’assemblea dei credenti, si raduna in vivente unità." da Alla destra del Padre

Terzo "mito"

Lo stato di "diaspora"

È abbastanza frequente sentir parlare, perfino con un certo compiacimento, di Chiesa che, dopo il tramonto della cristianità, si troverebbe in stato di "diaspora" o di dispersione.

La parola non è illegittima nel linguaggio cristiano, tanto è vero che si ritrova a capo della lettera di Giacomo (1,1) e della prima lettera di Pietro (1,1). Il suo uso però sollecita un minimo di riflessione critica, se si vuole evitare qualche malinteso.

Se si intende dire che i discepoli di Gesù "non abitano proprie città, non parlano una lingua speciale e non vivono una vita a parte" (come dice la Lettera a Diogneto, V,2), ma esistono sparsi, presenti e attivi in tutto il mondo e in tutte le situazioni umane, frammisti ai non credenti come il grano della parabola evangelica, e perciò anelanti a essere radunati nei granai del Regno, il termine è senza dubbio da accogliere. Basterà ricordare a questo proposito le belle espressioni con le quali, sempre la Lettera a Diogneto, descrive la vita "incredibile" ("paràdoxos") dei cristiani: "Ogni estranea regione è patria per loro, e ogni patria è per loro terra straniera..." (V,5).

Sarebbe invece inaccettabile nell’economia della Nuova Alleanza la parola "diaspora", se per essa si volesse disconoscere la profonda e inalienabile realtà di comunione che lega i cristiani tra loro, a partire dal carattere oggettivo e permanente della rinascita battesimale. È una realtà che non giace solo sul piano dell’invisibile, ma si manifesta anche sul piano sociale e visibile. In questo senso, la redenzione di Gesù è stata proprio il superamento definitivo dello stato di dispersione: il Signore è morto – ci dice il quarto evangelo – "per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (Gv 11,52). La Chiesa è dunque la fine senza ritorni della "diaspora", sicché un’ipotetica "diaspora" sarebbe per assurdo la fine non tanto della cristianità quanto della Chiesa.

Ma questo affascinante vocabolo, da taluno è usato per fare da furtivo supporto all’asserto che la "cristianità" sia un’idea costantiniana, medievale, oggi assolutamente improponibile: la cristianità è defunta, ed è un’encomiabile liberazione (si sente dire ogni tanto).

E chi mai ce lo ha rivelato?

La "cristianità" – cioè il riverbero sociologico della realtà misterica della Chiesa – è stata attuata in ogni epoca che è seguita all’effusione pentecostale. La comunità di Gerusalemme e le Chiese paoline (che certo non si possono definire "costantiniane") sono state autentiche cristianità, addirittura con elementi sociali, giuridici, economici, che, secondo la moda dei nostri giorni, sarebbero definiti "integralisti".

Va detto piuttosto che le forme di cristianità sono mutevoli: nessuna è eterna, e ogni secolo deve costruirsi la propria.

Agli effetti poi del nostro argomento, direi che la domenica è intrinsecamente orientata a trascendere la "diaspora" e a essere una manifestazione oggettiva ed eloquente della "cristianità". La disgregazione, come tutti i fermenti di male che derivano dal peccato, è un’insidia sempre in atto per i discepoli di Gesù che vivono ancora nel mondo; il mistero del giorno del Signore – come il mistero dell’eucaristia dal quale non può mai essere avulso, neppure nella considerazione – ci è dato appunto per superarla. Uomini, topograficamente e socialmente dispersi, sono dalla domenica convocati in una unità anche esteriore e visibile. "Di tutti coloro che abitano nelle città o nelle campagne si fa il raduno nello stesso luogo", scriveva Giustino.

Ogni celebrazione domenicale è dunque intimamente orientata a trionfare dell’impulso disgregante del Maligno nella comunione donataci dal sacrificio di Cristo

Credo che sia bello concludere questa riflessione proprio con una frase dello stesso Cardinale Biffi e alla quale possiamo pensare ogni domenica predisponendoci a partecipare alla S. Messa.

"Nella messa ci troviamo di fronte all’unica effusione pentecostale, riverbero terrestre della gloria del Risorto, che raggiunge insieme la comunità dei battezzati, la sua preghiera di offerta e i suoi poveri doni, e tutta questa realtà umana, composita e disadorna, trasforma e assimila alla realtà eterna del sacrificio redentore." (da Alla destra del Padre)