LA VOCE DEL VESCOVO
di Maria Carla Papi
Riflessioni sul Giorno del Signore
Nota pastorale di S. E. il Card. Arcivescovo Giacomo Biffi
Si fa presto a dire comunità!
Volendo, si potrebbe scherzosamente e sinteticamente commentare così il "quarto mito" preso in esame dal Card. Biffi nel suo ultimo documento sul Giorno del Signore. Infatti la parola comunità, che trae le sue origini dalle prime comunità cristiane, dove le persone vivevano mettendo in comune tutto, sia materialmente che spiritualmente, oggi ha assunto un significato in parte restrittivo e comunque incompleto.
Come già ho avuto modo di spiegare, in questa rubrica ho sempre cercato di descrivere agli altri ciò che attraverso il Magistero del Card. Biffi avevo capito io, ciò che mi era divenuto chiaro dopo essere stato solo un concetto nebuloso accettato a volte per fede a volte per tradizione.
Debbo tornare indietro a più di ventanni fa. Da poco abitavo nel quartiere attuale e, avendo il bambino piccolo, frequentavo le Messe domenicali in chiese diverse e; a seconda degli orari dei pasti, mi dirigevo verso quella più comoda, o tempo permettendolo tornavo nostalgicamente nelle chiese del centro legate alla mia infanzia (Servi di Maria, S. Francesco ).
Cè da tener conto che io nasco moooolto prima del Concilio Vaticano II ed avendo fatto parte di una Parrocchia antica e tradizionale (la Trinità), ero abituata ad un certo lessico. Ai miei tempi si era della Parrocchia di , parrocchiani di Don Tal dei Tali e, come identificazione che valeva anche fuori parrocchia cera il termine fedeli.
I fedeli erano i praticanti.
Quando ho iniziato a frequentare una Parrocchia per così dire moderna come quasi tutte le parrocchie di periferia, ho cominciato a sentire questa parola: Comunità.
Ricordo ancora, al termine della Messa domenicale che qualcuno leggeva gli avvisi e avvertiva: il giorno tal dei tali vi sarà il consueto incontro a Villa Angeli: la comunità è invitata a mettersi in contatto con la tal persona per comunicare la propria adesione nonché prenotare il pranzo.
Io sentivo queste parole, ma non me ne preoccupavo più di tanto, anche perché a quellepoca avevo appena il tempo di andare a Messa alla domenica.
Qualche anno più tardi mio figlio iniziò il catechismo e, parlando con una catechista, chiesi curiosa: ma chi sono quelli che vanno a Villa Angeli? E cosa fanno? Mi spiegò che si faceva un ritiro su un determinato tema che interessava le famiglie e veniva condotto da Don Carlo e che tutti potevano andarci. Obiettai: "ma sento sempre dire la comunità è invitata e pensavo ad un certo gruppo di persone". La catechista mi spiegò che tutti eravamo comunità. Così mi prenotai e anchio poi iniziai la mia esperienza a Villa Angeli assieme a mio figlio che giocava con gli altri bambini nel parco.
Ecco, credo che questa testimonianza la dica lunga su ciò che trasmette come significato la parola comunità.
Perché ero convinta che linvito fosse rivolto ad un particolare gruppo di persone? Perché per me comunità significava proprio ciò che Biffi spiega, e cioè "un raggruppamento di persone che passano insieme una buona parte della loro esistenza... unaggregazione di creature umane che si conoscono, che hanno tra loro rapporti di amichevole consuetudine, che pongono in comune problemi, gioie, aspirazioni, progetti, che si sentono anche sul piano emotivo legate le une alle altre".
Ora, è ovvio che i miei vicini di banco in chiesa, di cui non conoscevo neppure il nome, non potevano avere con me alcuna comunione, se non quella fratellanza cristiana che ci univa nellEucaristia. Questi erano come me dei fedeli e basta.
Ancor meno il vicino di casa che non trovavo mai in chiesa. Insomma, è difficile dire di essere membri di una comunità quando, a parte una stretta cerchia di persone, non si cresce insieme, non si condivide nulla, non ci si conosce a fondo a volte neppure di nome.
A maggior ragione oggi, nella vita di città una simile visuale di vita sembra sempre più improbabile. Ne consegue che la comunità è più che altro unaspirazione; più che essere è una speranza di divenire.
Siamo in tanti ad essere in comunione fra noi per la stessa fede e per mezzo dei sacramenti, siamo in tanti a riconoscerci come appartenenti a gruppi più o meno vivacemente inseriti nei diversi momenti comunitari, ma, come avverte Biffi, tutti sono parrocchiani, e soprattutto, tutti sono destinatari del Vangelo. Se si crea il malinteso di credersi già comunità solo per pochi motivi di identificazione si commette lerrore di etichettare come membro della comunità solo chi è visibile in un certo contesto, perdendo lo scopo - laspirazione - che è propria di ogni Chiesa locale, di ogni Parrocchia: cercare di divenire il più possibile comunità, sapendo che la perfezione non è di questa terra, rendendoci più partecipi, più visibili, meglio, più riconoscibili anche socialmente come cristiani.
Quarto "mito"
Lenfatizzazione della "comunità"
"In questo mezzo secolo la nozione di "comunità" si è progressivamente diffusa nelle tematiche pastorali, e oggi la si incontra un po in tutti i contesti. Le "parrocchie" sono diventate in larga misura "comunità parrocchiali", almeno nella loro carta intestata.
Anche la legislazione canonica si è adeguata. Il Codice del 1917 descriveva la parrocchia radunando quattro precisi elementi: un territorio distinto, un popolo determinato, una chiesa propria, un proprio pastore che è a capo per la necessaria cura delle anime (can.216 § 1). Secondo il nuovo Codice (1983) "la parrocchia è una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nellambito di una Chiesa locale, e la cui cura è affidata sotto lautorità del vescovo, a un parroco quale suo proprio pastore" (can. 515, §1). Il principio del "territorio", che era primario, sembra addirittura scomparso; è però recuperato al can. 518 che dice: "Come regola generale la parrocchia sia territoriale".
Il legislatore ha dunque assunto un concetto quello appunto di "comunità" che si era già ampiamente imposto nella cultura ecclesiale. Ed è una lodevole novità, che però domanda di essere ben valutata.
Che cosa è la "comunità" e che cosa è la "comunione"?
"Comunità" nasce come concetto sociologico e indica propriamente un raggruppamento di persone che passano insieme una buona parte della loro esistenza. Nel contesto che qui ci interessa significa unaggregazione di creature umane che si conoscono, che hanno tra loro rapporti di amichevole consuetudine, che pongono in comune problemi, gioie, aspirazioni, progetti, che si sentono anche sul piano emotivo legate le une alle altre.
Fino a diversi decenni fa prima dellavvento degli "appartamenti", della televisione, dellautomobile e dei "fine settimana" gli uomini conducevano un tipo di esistenza fortemente comunitario, sia nelle "corti" contadine sia nei caseggiati popolari delle città. Oggi la situazione è molto cambiata. Viene il sospetto che quando noi esaltiamo la "comunità" e la citiamo quasi ossessivamente nei nostri discorsi ("comunità cristiana", "comunità parrocchiale", "comunità giovanile", eccetera), più che rappresentare una situazione di fatto riveliamo una nostalgia. Al tempo stesso però tentiamo di assegnarci un compito e un ideale; e qui sta la positività della locuzione.
Come si intuisce, "comunità" non è sinonimo di "comunione", che è un concetto teologico. "Comunione" evoca il grande e sorprendente dono del Padre, che ci ha radunati a costituire ununica realtà trascendente: la realtà del "Christus totus" (del Cristo totale): "Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti" (Ef 4,4-6). Questa è la "comunione", questa è la "definizione reale" della Chiesa, che perciò è "mistero di comunione"
La Chiesa, che è "comunione", deve essere anche "comunità"? Linterrogativo vale proporzionatamente anche per la parrocchia, che ha un essenziale indole ecclesiale.
Se è vero che la Chiesa è una comunione santa di uomini peccatori che tentano di vivere da fratelli (e quindi comunitariamente) riuscendoci sempre poco, allora la parrocchia deve essere vista come una comunione trascendente (fondata sulla fede, sul battesimo, su un minimo di appartenenza al Corpo di Cristo dei suoi componenti), che si sforza si deve sforzare di diventare sempre più "comunità", anche socialmente percepibile. La vitalità e il pregio di una parrocchia, delle sue domeniche, delle sue celebrazioni eucaristiche sarà desumibile dallampiezza, dallefficacia, dalla generosità delle sue esperienze comunitarie; ma sarà bene non dimenticare che la piena coincidenza della "comunione" con la "comunità" si avrà soltanto nella Gerusalemme celeste, nella liturgia eterna, nella domenica senza tramonto.
Bisognerà perciò fare attenzione a non far coincidere sbrigativamente la "parrocchia" con la "comunità". Si correrebbe il rischio di escludere dalla nostra sollecitudine quei fratelli che per i più diversi motivi non sono in grado di inserirsi o comunque di fatto non si inseriscono nelle iniziative e nei momenti comunitari: ma restano anchessi "parrocchiani" a tutti gli effetti e sono anchessi destinatari della nostra operosa carità pastorale.